lunedì 24 settembre 2007

Percezioni del corpo e percezioni del pensiero

Percorso di citazioni con intervento (provocatorio) d’artista
di Vincenzo Cuomo e Angelo Ricciardi


“Fra le percezioni che sono causate dal corpo, la maggior parte dipende dai nervi; ma ce ne sono pure alcune che non ne dipendono affatto e che vengono chiamate immaginazioni, come quelle di cui ho ora parlato, da cui differiscono nondimeno in questo, che la nostra volontà non si adopra a formarle: per questo non possono essere messe nel numero delle azioni dell’anima. Esse derivano soltanto dal fatto che gli spiriti, essendo diversamente agitati e incontrando le tracce di diverse impressioni precedenti nel cervello, prendono fortuitamente il loro corso per certi pori piuttosto che per altri. Tali sono le illusioni dei nostri sogni, nonché le fantasticherie che spesso abbiamo da svegli, quando il nostro pensiero erra con abbandono, senza applicarsi a niente per se stesso”. (Cartesio, Le passioni dell’anima, tr. it. Di E. Lojacono, Milano, TEA, 1994, p. 64)
“D’altra parte si è costretti a confessare che la percezione e ciò che ne dipende non si possono spiegare con ragioni meccaniche, cioè mediante le figure e i movimenti. E immaginando che vi sia una macchina la cui struttura permetta il pensare, il sentire, l’aver percezioni, si potrà concepirla ingrandita con le medesime proporzioni, in maniera che ci si possa entrare come in un mulino. Posto ciò, visitandola all’interno, non vi si troveranno che parti le quali spingono le une le altre, ma non mai qualcosa con cui spiegare una percezione” (Gottfried Wilhelm Leibniz, Monadologia, tr. it. di G.Preti, Milano, Bruno Mondadori, 1995,
“Io devo avere un corpo, è una necessità morale, un’”esigenza”. E, in primo luogo, io devo avere un corpo perché vi è qualcosa di oscuro in me. Ma, fin da questo primo argomentare, l’originalità di Leibniz appare grande. Egli non dice che solo il corpo spiega quanto c’è di oscuro nello spirito. Al contrario, lo spirito è oscuro, il fondo dello spirito è oscuro, ed è proprio questa natura scura che spiega ed esige il corpo” (Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, tr.it. di V.Gianolio, Torino, Einaudi, 1990,
“Restituire il pensiero alle forze “corporanti” (agli impulsi), equivaleva a espropriare il supporto, l’io; tuttavia, proprio con il suo cervello Nietzsche effettua tale restituzione e tale espropriazione, così esercitando la sua lucidità per penetrare le tenebre: ma come si può restare lucidi se si distrugge il focolaio della lucidità, ossia l’io?” (Pierre Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, tr.it. diE.Turolla, Milano,
“Segno di sé e esser-sé del segno: questa è la duplice formula del corpo in tutti gli stati e in tutte le possibilità che gli riconosciamo (…). Il corpo si significa in quanto corpo (dell’) interiorità sensata: basta vedere tutto ciò che si fa dire al corpo umano, alla sua stazione eretta, al suo pollice opponibile, ai suoi “occhi in cui la carne si fa anima”(Proust). Così il corpo presenta l’esser-sé del segno, la comunità compiuta del significante e del significato, la fine dell’esteriorità, il senso nel sensibile –hoc est enim.
Tutte le nostre semiologie, tutte le nostre mimologie, tutte le nostre estetiche tendono verso questo corpo assoluto, verso questo corpo iper-significante, corpo del senso nel senso del corpo. Ogni funzione simbolica vi si compie: riunione sensibile delle parti dell’intelligibile, riunione intelligibile delle parti del sensibile (…). Ed è proprio qui che il corpo dilegua: per poter raggiungere questo culmine della significazione, “il corpo” è stato continuamente teso, esasperato, dilacerato fra innominabile e innominabile: tanto più straniero quanto più intimo. Il corpo è l’organo del senso: ma il senso del senso è quello di essere l’organo (o l’órganon), assolutamente (…). Il corpo non è, quindi, nient’altro che l’auto-simbolizzazione dell’organo assoluto. Innominabile come Dio, esso non espone niente nel fuori di un’estensione, ma è organo dell’organizzazione-di-sé, innominabile come la putrefazione dell’autodigestione (la Morte in Persona), e anche come quella costruzione dell’intimo tessuto del sé, cui si adopera una filosofia del “corpo proprio” (“ciò che chiamiamo carne, questa massa agitata all’interno non ha nome in nessuna filosofia” – Merleau Ponty). Dio, la Morte, la Carne: triplice nome del corpo di tutta l’onto-teologia. Il corpo è la combinatoria esaustiva, l’assunzione comune di questi tre nomi impossibili in cui si esaurisce ogni significazione” (Jean-Luc Nancy, Corpus, tr.it. di A.Moscati, Napoli,
“Un giorno decisi di creare una persona. Forse per solitudine, forse per noia, forse per gioco. Non ha molta importanza. Il progetto mi attirava.
Naturalmente non sarebbe stato un problema creare una riproduzione meccanica degli stati funzionali di una persona nelle loro complesse relazioni; creare una macchina che si comportasse esattamente come una persona. Il difficile era creare qualcosa che avesse una vita interiore emotiva e mentale; creare una persona reale in tutto e per tutto, e non qualcosa che si comportasse semplicemente in modo identico a una persona.
Non armeggiai dunque con plastiche, transistor e altri hardware. Presi del materiale adatto – DNA, protoplasma – e mi misi al lavoro. A dire la verità, non fu così difficile crearlo. Dopo tutto ero bravo. Creai direttamente una persona già cresciuta e mentalmente sviluppata. Poiché mi piaceva l’idea di usare le vocali per i nomi, lo chiamai “A” (…). Sembrava felice con me. Ero felice anch’io.
Finché la mia creazione non volle altra compagnia oltre alla mia. La cosa mi spiacque, se devo dire la verità. Pertanto (se devo dire proprio tutta la verità) me la sbrigai alla svelta. Invece di creare un’altra persona con una propria vita mentale ed emotiva, creai una macchina che simulasse perfettamente il comportamento di una persona. La chiamai con la vocale successiva “E”. Naturalmente A non sospettò nulla. (…) Tutto andò avanti bene finché non decisi che A non era una buona compagnia. La ragione, naturalmente, era che A era troppo stupido. Non era piacevole avere a che fare con qualcuno che poteva venire ingannato con tanta facilità. Così pensai di creare un’altra persona più adatta a farmi compagnia; una persona che non potesse venire indotta a pensare che un simulatore fosse una persona (…). Pensai quali caratteristiche avrebbe dovuto possedere un essere simile (…). Ebbi a quel punto l’idea più ovvia: dare alla nuova persona il dono della telepatia. Una persona telepatica sarebbe stata in grado di sperimentare direttamente le esperienze altrui nello stesso modo in cui sperimentava la propria (…). Mi misi al lavoro con impazienza. Non era troppo difficile creare un essere telepatico (…) finché mi resi conto che a questo rivelatore di falsi avrei dovuto fornire non solo l’abilità telepatica di sperimentare qualsiasi esperienza posseduta da ciò su cui si concentrava, ma anche qualche mezzo per sapere se ciò su cui si era concentrato possedesse anch’esso quelle esperienze (…). Gli fornii allora più pensiero, ma senza ottenere nulla. (…) Una persona qualunque avrebbe ammesso il proprio fallimento e avrebbe deciso che non era in grado di costruire un rilevatore. Ma io non sono affatto una persona qualunque. (…) Mi guardai attorno in cerca di un approccio meno ortodosso ed ebbi la brillante idea di inserire nel rivelatore come mezzo per distinguere le persone dalle simulazioni, la stessa tecnica da me usata per raggiungere quello scopo; la tecnica cioè che io stesso utilizzavo per dire che A era una persona ed E una simulazione meccanica.
A essere sincero, non avevo mai pensato prima al modo in cui io conoscevo (…). Dopo una breve riflessione, mi resi conto che non avevo cercato di scoprire se A o E fossero persone o simulazioni meccaniche. Voglio dire che li avevo creati nel solito modo (…) Avevo semplicemente assunto che A fosse una persona ed E una simulazione meccanica. (…) Mi sentii anche molto sciocco…” (Robert Nozick, Puzzle socratici, tr.it. di D. Zoletto, Milano, Cortina, 1999, pp. 389-392).

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