domenica 24 febbraio 2008

Consulente d'arte

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Se non vi piace la materia e non avete la curiosità da appassionato pedante di confrontare i vostri gusti con quelli di altri, abbandonate subito la lettura: anche se mi sono inibito e ho contenuto le tentazioni a citare nomi, non ho potuto risparmiare un lungo elenco. Per di più, con dovizia di opinioni bizzarre.
Non pochi, dotati di quattrini, acquistano quadri di valore, non tanto per guardarseli, ma per “diversificare gli investimenti”. Con la golosità di guadagnare come in un affare, si rivolgono spesso all’arte contemporanea, più promettente in vista di forti rivalutazioni; e siccome si tratta di soldi – e nell’arte contemporanea è difficile orientarsi dentro la gran confusione di prezzi e qualità – pensano giusto rivolgersi a consulenti. Non di rado questi sono mercanti interessati, ma non si può escludere che esperti in buona fede siano felici di consigliare amici e conoscenti per il piacere di passare il tempo in un settore gradito e comprare per altri quello che non possono comprare per sé.
Se un amico ricco avesse la bontà e la suprema modestia di affidarsi a me per questo genere di consiglio, darei l’anima per aiutarlo, ma utilizzerei un principio elementare e assoluto: non la probabilità che il pezzo aumenti di valore, ma il puro apprezzamento estetico, il messaggio poetico che un artista mi trasferisce. Prenderei le opere che desidero per casa mia, questa volta senza limitazioni economiche. Aver visto molti dipinti in molti musei e molte mostre in molti anni, fornisce almeno una sicurezza consapevole di gusto e questo vorrei trasmettere a un amico meno informato, cercando magari di tener conto delle sue preferenze archetipiche.
Non occupiamoci di pittura antica, il discorso porterebbe troppo lontano. Inoltre, nei suoi valori maggiori, ha un mercato troppo ristretto, per veri Nababbi. Se non c’ è una disponibilità finanziaria enorme, che consenta di accedere ai grandi – e alle loro opere migliori, non a quelle di scarto – meglio rivolgersi alle bellissime stampe di Durer o di Rembrandt o di Goya; o a disegni, tuttora reperibili sul mercato (autentici o imitatii da Hebborn che siano) a prezzi decenti. Un bel disegno del Guardi (Venezia-acqua, non i capricci architettonici). Certo non mi negherei, se si trovasse, un dipinto di Piero di Cosimo o un piccolo Mantegna (una Madonnina come quella di Berlino o un’Adorazione con i pastori pieni di sentimento) o un olio fiammingo del Quattrocento, ma dovrebbe verificarsi il fallimento di un museo e bisognerebbe essere favoriti all’asta. O conoscere qualche tycoon in disarmo che svenda la sua collezione. Starei alla larga dai fondi oro, da sempre – e peggio da Berenson in poi – terreno preferito di mercanti voraci e abili falsari. Allora, meglio ripiegare su qualche fiammingo del Seicento, carretti a ruote grandi in un paesaggio a sfondo azzurrino, oppure una natura morta con i formaggi (non con i fiori o la frutta, troppo comuni); o, ancora, una bella veduta veneziana del Settecento: in questo ambito, sono ancora accessibili opere di qualità entusiasmante.
La pittura dell’ Ottocento non mi interessa, quella italiana ancor meno, per la cappa provinciale, i frequenti contenuti da melodramma e le intemperanze formali. Degli Italiani mi piacciono Carnovali – il Piccio – , qualche cosa della Scapigliatura, e, un po’ più avanti – Novecento per epoca, Ottocento per spirito – il post-macchiaiolo Ghiglia, compagno di scuola di Modigliani. A livello internazionale, trovo affascinanti i Preraffaelliti per la stranezza e la qualità vibrante dell’ esecuzione e, per altri versi – ma non lo comprerei anche se genio originalissimo –, il paesaggista tedesco Friedrich, oltre a qualche olandese. Degli impressionisti, ammiro i pastelli di Degas, (tanto deriso dal mordace Picasso, nella suite Vollard, per la sua inclinazione senile verso le ballerine) – ma, per la mia casa, di lui vorrei piuttosto certi dipinti con il verde degli ippodromi e i cavalli – e ammetto il valore di Monet – vero motore e punta del movimento – prima dell’esasperazione ripetitiva. Agli altri riconosco il ruolo storico, la rottura, ma Renoir è insopportabile e ha in più il demerito involontario di aver dato la stura ai peggiori quadri da bancarella, di essere responsabile del più sinistro pseudo-Impressionismo da piazza. Piuttosto, meglio l’ubriacone Utrillo, con le sue ingenue ma toccanti case grigie parigine, visioni fedeli della città che forse copiava da cartoline, nella sua stanza, vicino alla bottiglia, a dispetto del “plein air”.
Un olio di Cezanne è troppo anche per un ricco ambizioso e gli acquerelli mi sembrano molto meno attraenti. Abbandonerei l’idea di un Van Gogh, stratosferico nei prezzi e che parrebbe una riproduzione (a tal punto vediamo dappertutto copie o stampe dei suoi girasoli, degli iris e degli autoritratti), ma cercherei a costo di sacrifici un Gauguin, di soggetto non-tahitiano.
Spostandoci nel Novecento, in assoluto Klee, Schiele, Modigliani sono quelli che preferisco, i più emozionanti. Un riccone può includere nella collezione un Braque o due (Picasso è troppo scontato, fa ricco ma non fine); di Braque mi accontenterei addirittura di qualche litografia (prenderei una colomba). Sono particolarmente belle secondo me le opere degli anni quaranta e cinquanta, molto più tarde rispetto ai periodi importanti per la storia dell’Arte: equilibrio, gusto, bellezza prendono il sopravvento sulle istanze teoriche. E Matisse? Un collage degli ultimi anni, quando, infermo, ritagliava o faceva ritagliare dai collaboratori le carte stando nel letto o in carrozzella, prova che un certo impedimento, a volte, contenendo impulsi prometeici e dispersivi, libera meglio la fantasia in una sintesi più limpida. Poi, qualche espressionista tedesco. Schmidt Rottluff prima degli altri. O un Kirchner degli ultimi, un paesaggio verde scuro. I quadri degli espressionisti sono forti e raffinati e non rischiano mai di apparire banali, come è invece, oggi, per gli impressionisti, a causa del seguito popolare che hanno avuto. Vorrei anche (non è espressionista, è nei dintorni) un paio di disegni (almeno, se un olio anche meglio) di Feininger, uno dei miei preferiti assoluti. Un espressionista in casa vuol dire cultura (escluderei l’antesignano del movimento Munch, che mi sembra disarmonico e sgradevole nel disegno); un impressionista può significare seguire una moda, per di più superata, da vecchio. Se il mio amico ricco insiste e un impressionista lo vuole proprio, prendo un Pissarro con i tetti arancio o un Monet prima maniera, o aspetto sul mercato un Degas con cavalli, fantini e prato verde, e, scivolando negli epigoni, un bel Toulouse Lautrec, preferendo ancora cavalli e diligenze alle inflazionate prostitute. Se il connotato borghese dell’amico è incrollabile, posso concedere un piccolo Bonnard o un Vuillard, però mi sembra un’abbondanza inutile, una mania di completezza, una presunzione, una cosa fuori luogo.
Niente Dada, Man Ray, Duchamp, Arp (vanno bene visti sui libri di storia dell’Arte); quasi niente Surrealismo. Al massimo Max Ernst, scegliendo un’opera fra quelle meno stravaganti: lo metterei, con sommo snobismo, nella stanza da bagno, come Peggy Guggenheim, anche se per altri motivi. E Otto Dix, roba – si può pensare – adatta alla casa del barone Von Tyssen Bornemitza; ma cercherei ugualmente un suo lavoro, ammirandone la finezza di esecuzione e la satira raffinata, mai grossolana. Assolutamente no Magritte e Delvaux: mi infastidiscono. Sì, senza troppo entusiasmo, Schwitters, ma chi trova cose sue? Ho sempre dichiarato il mio scarso feeling per Kandinsy – ottimo teorico, pittore debole, nella mia ottica – come anche per Chagall nello stile tardo, col disegno sfatto (accettando dunque i primi quadri nostalgici, quelli di stile cubista addomesticato, con i verdi intensi) e il mio dispetto per Mirò con il suo finto-puerile. Ne impedirò dunque l’acquisto all’amico, caso mai gliene venisse la voglia.
Spostiamoci avanti e indietro nel tempo, troppo noioso e difficile andare in ordine: anche uno o due dei COBRA consiglierei; sono vigorosi e immediati, gustosi, vitali, senza smancerie, anche se troppo costosi rispetto alla sostanza . Fra loro, scelgo Karel Appel. Ma soprattutto, nell’ambito del contemporaneo europeo, ci vogliono Fautrier e Dubuffet. Fautrier è uno dei più alti pittori della seconda metà del Novecento, le sue opere sono nobilissime; ne acquisterei parecchie, potendo, anche della fase figurativa oltre che del periodo maturo, informale. Di Dubuffet un quadro o due di quelli materici, di gesso e catrame, con le figure incise, e un altro sul versante allegro, con le mucche nel prato verde del periodo successivo. Dubuffet è grandissimo, fresco, nuovo e denso di mistero, ricerca un ritorno alla spontaneità di ben altro spessore e fascino rispetto a Mirò e ha il merito di aver scoperto e imitato, con esplicita giustificazione critica, l’arte dei cosiddetti matti, che è spesso geniale e commovente e, sempre, sincera e genuina. Il suo teorizzare che l’Arte deve sbarazzarsi di tutte le teorie e le Accademie è una palese contraddizione per un raffinato e profondo intellettuale come lui, ma la densità del suo messaggio e il suo valore poetico sono evidenti. Tutto quello cha ha dipinto o scolpito è bello, non mi piacciono solo gli assemblaggi di ali di farfalle.
Arriviamo infine alle opere più accessibili o, almeno, più reperibili. Uno degli artisti da acquisire per un facoltoso è De Pisis, pittore istintivo e senza trucchi, sapido, poetico ma istruito, strutturato su un fondamento di cultura internazionale filtrata con sensibilità sottile. Evitando i quadri comuni, semplificati, che, forse, sono per gran parte falsi, cercando invece il dipinto veramente bello, quello che, a colpo d’occhio, affascina. Sceglierei paesaggi di atmosfera più ancora che nature morte, o, se nature morte, quelle scure con oggetti di vetro tratteggiati di pennellate bianche, trasparentissimi. Uno o due De Pisis di quelli buoni in casa si guardano volentieri. De Pisis ha meditato con intelligenza e originalità pittura antica e moderna, Impressionismo e correnti contemporanee, e con libero talento ha lasciato la sua impronta in una figurazione trasognata, nervosa e lirica che mi ricorda, nei paesaggi, soprattutto il vedutismo di Francesco Guardi.
Sebbene fuori dalla storia dell’Arte Contemporanea, perché classificabile formalmente come letargico nella forma, un altro grande è Arturo Tosi, più moderno di quanto non sembri a prima vista, influenzato dalla Scapigliatura e dal pittore francese Monticelli, materico e grumoso (un artista a parte, un isolato che ha influenzato anche Van Gogh).
Mi piacciono i pittori con personalità inconfondibile. Per fare un esempio in negativo, non mi interessa nulla Severini, tanto osannato e quotato: dopo un insignificante fase futurista, imita Braque e Picasso e, pur avendo l’onore di appartenere a un’avanguardia, per essere stato a Parigi nel momento cruciale, è un copiatore troppo scoperto, quasi spudorato, i cui limitati meriti sono aver capito in tempo reale il Cubismo e avere un passabile gusto decorativo. Preferisco di molto uno storicamente più modesto come Gentilini, che deriva sì la sua pittura dai modi di Paul Klee, ma ne dà una versione riconoscibile, personale e coinvolgente, dipinga prostitute di strada, gatti o cattedrali. Alcune sue visioni notturne surreali sono magnifiche.
Apprezzo Marino Marini, che certa critica accusa di manierismo: io vedo in lui raffinatezza non leziosa, spontanea eleganza, umorismo non caricaturale, ma anche tensione e ricerca, oltre a emozione e piacere di rinnovamento per sottili variazioni e un grande, moderno gusto per le belle immagini. Anche Fausto Pirandello mi piace, per la misura e il colore. Si può dire che nessuna opera di Marini o Pirandello mi disturbi, tutte le trovo degne. E mi piacciono le opere commosse, anche solo le incisioni originalissime e tenere, di Giuseppe Viviani, cui hanno contribuito ad affezionarmi i caldi articoli del suo amico Piero Chiara.
Tra gli informali, Vedova va bene, ma è un po’ troppo nero e un po’ troppo alla moda, enfatizzato dai mercanti. Ha prodotto negli ultimi anni una quantità di tele e soprattutto carte che invadono aste e vendite televisive e lo si può ben comprendere dati i costi elevatissimi e la rapidità di esecuzione che il suo tipo di pittura informale-segnica consente. Il gusto e la qualità sono sempre rispettabili, comunque, anche se io trovo poco convincenti certi rossi elettrici. Santomaso (più ordinato) e Celiberti (più selvaggio) sono notevoli, sebbene il secondo, tuttora attivo, ultimamente ceda, lusingato anch’egli dalle televendite, verso una produzione leggermente troppo abbondante, ripetuta e condiscendente. Burri e Afro sono grandi di livello internazionale. Fontana invece non mi attrae: è troppo freddo e troppo facile; il rigore di stile e la riconoscibilità sono pregi, ma non bastano. I quadri con i tagli sono tersi, ma quelli con i buchi sono sgraziati e il nitore dello sfondo è dissonante con lo sgradevole arbitrio dei fori. I titoli non aiutano, denotando l’ingenuità presuntuosa comune a molti pittori che hanno ambizioni letterarie e filosofiche esagerate e inopportune (“good painters, bad philosophers”). Basta un titolo come Concetto spaziale ad abbattere un quadro di Fontana, la prosopopea lo tradisce. Un pittore veramente colto, oltre che dotato di sentimento, è il meglio, però a un finto colto preferisco un naïf di talento.
Di Crippa può andare bene un sughero ben scelto, non un quadro con le spirali. Di Dova uno smalto può essere gradevole. Nessuno di questi è entusiasmante. Agli stessi prezzi, si acquista un maestro antico di pregio. Se si trova, per il mio gusto è sicuramente da prendere – finanze permettendo – Licini, fuori da ogni gruppo e classificazione, ma di notevole fascino. Anche un buon Birolli è una scelta giusta, non sfigurerà in casa del ricco amante di arte, sebbene tenda all’eccesso di intellettualismo. E anche qualche opera riuscita (sono di vario livello) di Corpora o di Saetti.
Tadini, ammirevole per la cultura sostanziale che mostra nelle opere pittoriche come negli scritti, è elegante ma algido. Considerazioni analoghe valgono per Adami. Anche Emilio Scanavino, raffinato in modo diverso, è però quasi sempre troppo cerebrale. Gi astrattisti geometrici (Veronesi, Soldati, Dorazio), non mi dicono niente. Magnelli: un po’ meglio.
Fra i più recenti, i migliori sono Mattioli – a patto di scegliere bene i soggetti, perché qualche noia viene dagli alberi solitari e dai bianchi e rossi troppo vivi – e Forgioli – che invece si può acquistare alla cieca, perché la qualità è omogenea nella sua controllata produzione. Mi piace, poi, Franco Rognoni, che ha appreso con garbo da Klee e da Feininger, sempre restando su terreno di poesia pura, specialmente nei paesaggi e nei notturni (vorrei una Venezia o un panorama azzurro con il classico campanile illuminato e la luna, vecchio simbolo lirico immortale). Dico di sì anche a Paietta, quasi introvabile, pittore rimasto nascosto, del quale si può vedere un’idea sulla scala di “Peck” a Milano.
Degli stranieri, Sutherland, “british”, moderno, di classe. Tra gli altri, del gruppo di Londra, il super-materico Auerbach (origini tedesche) più di Bacon (grande, espressivo e originale, ma non incontra del tutto il mio gradimento) e di Lucien Freud con il suo personale realismo. Cercherei anche Ben Nicholson, che mi dà piacere anche nelle più semplici matite. Un bel colpo snobistico (sono costosi ed esclusivi ma poco noti fuori del Regno Unito) sarebbe trovare qualche opera dei raffinati paesaggisti neoromantici inglesi della prima metà del Novecento (di stile sostanzialmente post-impressionista, però con un’inconfondibile nota britannica, trasversale nei secoli di arte inglese, come la musica di Purcell o di Elgar): specialmente un acquerello di David Jones, sintetico e squisito. Niente David Hokney – prezzi esagerati e poca sostanza – che sfrutta la moda e l’ignoranza dei più con sfacciata ruffianeria, oltre che in virtù di ammiccamenti omofili intenzionali alla cattura di un certo pubblico. Gioca con l’iperrealismo e il "sofisticated" formale (anche il suo libro sull’uso degli espedienti ottici dagli antichi maestri è superficiale e non dice nulla di significativo al di là delle belle fotografie, in un’imponente presentazione per un modesto contenuto). I grandi americani – Pollock, Rotchko – sono inavvicinabili per i costi spropositati, e, a causa delle dimensioni, richiedono pareti di castelli o loft a New York. Stanno meglio negli States che da noi, e così i loro emuli (mi piace Motherwell). Però farei un’ eccezione, per mia personalissima simpatia: prenderei un bel De Kooning, di formato piccolo per limitare – pur con il pagatore alle spalle – la spesa e trovargli posto in una casa normale. Lascerei agli americani la Pop Art, importante quale movimento di idee ma poco godibile per un europeo della mia età.
Tornando agli italici, gli altri nomi noti non mi interessano, inclusi quelli roboanti e storicizzati. Savinio è preferibile, per me, al fratello Giorgio De Chirico, rispetto al quale è più spiritoso e meno retorico, ironico pur restando solenne. Carrà mi è sempre sembrato mediocre, povero: vedendo gli affreschi del Quattrocento italiano affumicati e sporchi di vernici gialle e grigiastre da secoli (l’epoca dei grandi restauri filologici, discussi per la reintegrazione dei colori vivi, doveva ancora venire), ne ha riprodotto il sapore nelle sue marine tirreniche. Ė vero che ha partecipato come teorico attivo ai movimenti italiani importanti: Futurismo, Metafisica, Novecento (dunque Avanguardie e tutto il contrario), ma come pittore futurista era a rimorchio di Boccioni, inclinando verso il brutto (orribile lo sfigurato cavallo in corsa tutto rosso, con il muso corto e i dentoni), come rappresentante della metafisica era meno ispirato di De Chirico, sostituendo cromatismi ora smaltati e chiari ora fumosi e un disegno insicuro alle oniriche figurazioni di fuoco crepuscolare, grevi ma profonde e nostalgiche, di DeChirico. Quanto ai suoi meriti come teorico, sono persuaso che, sebbene sia rispettabile l’istanza di teorizzare, la pochezza logica delle dottrine alla base di tutti questi movimenti li abbia immeschiniti: la pittura da sola sarebbe stata più suggestiva, e rendere esplicite le idee sottese la ha sminuita, prosaicizzandone la poesia visiva.
Morandi è fine e personale ma, alla lunga, così ripetitivo da diventare noioso, danneggiato poi dall’essere proposto ed esaltato in ogni occasione. Mafai è apprezzabile e più raro. Ancor più vorrei avere un’opera della moglie Antonietta Raphaël, di spirito e formazione internazionale e spregiudicata, ben al di fuori della cappa provinciale e retorica del novecentismo con cui ha avuto rapporti (bellissimo il suo quadretto a Brera).
Morlotti ha una buona formula, ma à stato troppo ripetitivo. Music è tenue e la sua delicatezza finisce in manierismo ingiustificato. Turcato è serio, elegante ma poco sanguigno: scade nel decorativo. Farei anche un elenco di quelli da evitare. Partendo dai più recenti, Schifano: grande bluff e forse falsificato per i quattro quinti (o i nove decimi? O i diciannove ventesimi?) – ammesso che ci sia qualcosa da falsificare per opere così ordinarie – con i correligionari Tano Festa e Franco Angeli. Lasciamo perdere anche Transavanguardia, Nespolo (che ha voluto conferire dignità ai puzzle, se non altro con qualche originalità), Baj, intelligente ma troppo caricaturale e, andando indietro, per citare autori all’apogeo tre decenni fa, Fiume Cantatore Sassu Cascella Brindisi e Migneco, il quale ultimo ha confuso l’espressionismo con le rughe sui volti e la pittura a sfondo sociale con la bruttezza fisica dei personaggi; gli italianizzati Lam e Matta, che mi sembrano vuoti, Guttuso con le sue Vuccirie, le ruvide nature morte e i suoi nudi (deretano largo e piatto per fedeltà alla modella titolare), comunista frequentatore di salotti alla moda, pittore, a mio modo di vedere, pesante, insignificante dietro l’affettata solennità, spesso volgare nel colore. Che cosa significa Guttuso, quale è il suo messaggio? Per rifarsi a un famoso racconto: nada y pues nada y nada y pues nada. Una propaggine fuori sede di realismo socialista lo ha giustificato e promosso, con la collaborazione della diffusa ignoranza che permette ai critici di prosperare meglio e con il sostegno di una cultura egemonica che mescolava Arte e Politica.
Da escludere i manierismi insipidi: Tozzi delle teste di manichino (non è ridicola la loro moltiplicazione all’infinito?) e Guidi delle isole di S.Giorgio, una presa in giro. Guidi è terribile in tutte le fasi, anche nel periodo giovanile novecentista, quello più raro. Nei prodotti peggiori, poi (le lagune con gli angoli inferiori segnati di un altro colore, certi volti e occhi con il verde: le Baronesse!), tocca lo sgradevole irritante: può darsi che i quadri più brutti (molto numerosi) siano copie o imitazioni, dilatazioni mercantili favorite dalla facilità tecnica irrisoria con cui si presta alla falsificazione. C’è da sperarlo, per salvare in parte la sua dignità artistica. Goffe a loro volta, pur se di qualità migliore, le faccine di Antonio Bueno, che ha trovato pascolo nel nostro paese con l’espediente della ripetizione micro-variata di un soggetto grazioso e puerile (mentre sono degni di nota i primi quadri iperrealisti). Stesso deterioramento commerciale, su versante patetico, nelle piagnucolose figure grigie del fratello Xavier. Fra gli artisti ormai “storici”, mi innervosisce Campigli con il tanto elogiato arcaismo e gli occhioni cerulei tutti uguali, buona trovata per un quadro o due, non per una serie interminabile. Quelle donne tutte con gli occhi teneri di ispirazione egizia, sui toni ocra, dal corpiciattolo deformato secondo uno stereotipo privo di variazioni, non fanno ridere alla fine? Che qualcuno sia disposto a comprare un quadro grande di Campigli per oltre un miliardo di lire desta stupore davvero. Peggio ancora Rosai, specialmente i famigerati Omini all’osteria. Ben più articolato e sottile Casorati, che pecca, però, di accademismo accomodato, difettando di spontaneità. Lasciamo stare Funi Borra Oppi e novecentisti vari, con un’eccezione positiva per Marussig, più nitido e meno greve, e Sironi, di altra levatura grazie all’originalità dei soggetti e all’ispirazione moderna (Tosi è collocato insieme ai novecentisti, ma, per la sensibilità diversa, è tutt’altra cosa). Se piace proprio il genere – “Novecento” e novecentisti a tutti i costi – cercate Cagnaccio di S.Pietro, asciutto e singolare rappresentante dell’Art Decò italiana in pittura, severo, ricercato e poco conosciuto alla massa di cacciatori di affari.
L’elenco, quasi alla rinfusa, arbitrario nell’ordine e nella logica delle opzioni, considera pittori storicamente importanti e altri che sono semplicemente best seller nelle mostre mercato, in alto sulla lista delle preferenze e della propaganda commerciale. Non ho citato importanti artisti internazionali di oggi, come Kiefer o gli altri tedeschi: sono ormai troppo vecchio. Penck, nonostante io abbia un debole per i graffiti, mi sembra un Dubuffet troppo male in arnese, Baselitz e i suoi personaggi rovesciati mi pare poco serio. Desidero quadri dipinti o giù di lì; installazioni, neon, video o costruzioni da camera non mi comunicano niente o non li considero parte dell’arte di cui parliamo.
All’amico ricco procurerei insomma un Afro o due, un Licini (una Amalasunta), un Santomaso, un paesaggio di De Pisis, qualche inglese – Sutherland e Ben Nicholson in particolare – Tosi, Paietta, un bel dipinto colorato di Marino Marini (oltre a una sua scultura per il giardino, magari), un quadro di Cagnaccio di S. Pietro per dare un tocco di diversità elegante, uno o due Mattioli ben scelti, Forgioli (più di uno) e, se si trovassero, Dubuffet e Fautrier. Se vuole strafare all’americana, un Motherwell in una parete del salone. Gli cercherei qualche disegno di area Rembrandt, qualche incisione di Mantegna e Dürer, due o tre dipinti antichi solo di gran livello, secondo le occasioni del mercato. Vorrei uno o due quadri di un vedutista veneziano, Venezia-“acqua”. Infine uno Schiele, almeno un acquerello, meglio però un olio. Un Feininger.
Personalmente, tuttavia, mi dedicherei, nell’ambito dell’Arte Contemporanea, in prevalenza a pittori non ancora affermati. Se il ricco amico che si fa consigliare è davvero libero da preconcetti, se non ha bisogno che tutti i suoi artisti siano noti e quotati sul mercato nazionale o internazionale, mescolerei a quelli celebri altri ignorati, che non sono usciti dal loro ambito. È una soluzione disinvolta, meno parruccona, che dimostra gusti non timidi. Troppo facile acquistare i pittori già consacrati dalla critica e dal pubblico: basta avere le possibilità economiche. Uno qualunque dei seguenti, se prescindiamo dal ruolo storico, se non teniamo conto del merito di appartenenza a correnti o movimenti innovatori, secondo me è molto meglio, nella propria casa, del gruppo di titolati che ho definito“da evitare”. Inoltre, pittori ignoti ai più sono espressione di una vera scelta e non di un atteggiamento pedissequo. Se vedo un Renoir in casa di un conoscente, magari il nudo grasso di una rosea panettiera bionda, che cosa penso? Che gusti scontati, per essere così ricco. E un Rosai? Che banalità, non poteva scegliere meglio? Oltre che dall’autore, dipende naturalmente dalle opere: di Lilloni, altro è il solito bosco azzurrato, altro è una veduta di Stoccolma. Ci sono opere di Cascella degnissime, prima che si mettesse a dipingere Portofino e campi di papaveri (ma se uno conosce i papaveri corrivi, allora accetta male tutto Cascella).
Nell’area milanese, grande artista è Gianfranco Testagrossa, meritevole di riscontro ben più ampio, che ha il dono superiore del disegno assoluto e traccia graffiti dalla linea perfetta, aspirando a risalire ai primordi della figurazione: così nelle opere informali su carta, come negli oli figurativo-simbolici o nelle sculture di terracotta colorata, è di altissimo livello. Una mistura di orgoglio, cocciutaggine, paura che le pressioni commerciali snaturino la sua arte, lo rende diffidente verso mercanti e televendite, un approdo che gli renderebbe più facile la vita, dato il sicuro successo cui sarebbe destinata la sua arte elegantissima e di forte impatto. Notevoli sono anche la senese Battaglini, residente a Sesto San Giovanni, che richiama i fondi oro prerinascimentali inserendovi immagini di mura merlate medioevali – memore dei paesaggi urbani del conterraneo Ambrogio Lorenzetti – in un timbro oscuro e una materia di gran gusto, e il “fauve” Licos, istintivo ma sapiente, di stile pittografico e con frequente uso di un“dripping”personale, che espone le sue tavole sui Navigli. Monticoni, che abita nel cremasco, è geniale e poliedrico, un artista informale di statura internazionale. I suoi dipinti e le sue sculture non sfigurano in nessun contesto, sono opere contemporanee di classe. Nell’ambito parmense trovo gradevolissimo Stefano Spagnoli, eclettico e, nella produzione migliore, di grande qualità: pittore di genere colto, utilizza spesso come supporto, traendone fascino, vecchie carte o tavole grezze; anche per lui la fonte principale è Klee, in un’elaborazione originale e commista con altre suggestioni culturali e un frequente connotato Art Noveau; ma, come artista libero e inventivo, non disdegna escursioni nel collage più sbrigliato con carte e stoffe colorate o in figurazioni geometriche solide e volumetriche. Sempre, con un risultato brillante. Mi piace acquistare i quadri di Spagnoli da Giovati, straordinario personaggio di Parma, corniciaio d’eccezione e gallerista per amici, capace di trovarvi le cornici vecchie più giuste o costruirne di nuove, patinandovele con gusto superlativo e suggerendo accostamenti da vero maestro, per i dipinti di Spagnoli come di ogni altro pittore. Da Giovati potrete imparare un mucchio di cose.
Con una escursione indebita nella scultura, prenderei anche le piccole ceramiche ispirate di Tonino Negri, giramondo con abitazione a Lodi che ha applicato nuovi modi tecnici a una creatività davvero brillante e originale.
Ultima scoperta, un senegalese simpatico, Lamine Seck, che vi piacerà se amate lo spontaneismo primitivo: abita vicino a Zingonia e dipinge con individualità e freschezza; la sua opera è un incrocio fra Art Brut e graffiti da strada: chine e pastelli a olio o tecniche più complesse, che sposano un segno ruvido a uno sfumato elaborato e si ispirano per lo più a ricordi di villaggio. Di lui sono curiosi ( si ripetono in tanti quadri) gli animali uno sulla groppa dell’altro, un’illustrazione sui generis (genere africano) dei Musicanti di Brema.
Se fossi consulente d’arte di un riccone, non potrei esimermi dal controllare e scegliere le cornici. Sono fondamentali. Alcuni artisti se le preparano loro stessi (fra i grandi Schwitters e Klee, oltre a Gustav Klimt che ne faceva sbalzare alcune in argento dal fratello Georg dopo averle disegnate di persona). Vediamo spesso in case, esposizioni, perfino musei quadri importanti rovinati da cornici triviali. Avere un corniciaio capace, sensibile, collaborante e possibilmente fantasioso di suo è essenziale per valorizzare i dipinti. Sulla qualità delle cornici bisogna essere tassativi. Io sarei esigente, inflessibile nella verifiche.
Può sembrare incongruo accostare Paul Klee e Modigliani a uno sconosciuto senegalese di Zingonia quasi dilettante (e irriverente per Klee); ma è il bello delle conversazioni senza freni su questo argomento: si corre con la fantasia e le associazioni mentali, si parla a ruota libera, per voli pindarici. E un sito web offre il massimo di libertà, perché gli interlocutori non sono concreti e condizionanti, ma immaginari e senza alcuna verifica, con un contraddittorio soltanto ipotetico. Dato ma non concesso, poi, che qualcuno spinga la lettura fino in fondo; il che anche, per fortuna, non è verificabile.

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