giovedì 28 febbraio 2008

Godani, Paolo, L’informale. Arte e politica.


A CURA DI D. PICCHIOTTI

“Esiste un’affinità fondamentale tra l’opera d’arte e l’atto politico. Tale affinità tuttavia può venire intesa in due modi addirittura opposti: si può pensare che l’opera d’arte e l’atto politico presiedano alla costruzione di un tutto ben organizzato (la bella rappresentazione organica, il buon ordinamento statuale), oppure che essi siano affini in quanto affermazioni di molteplicità non organiche – definite dal fatto che le relazioni costitutive tra i loro elementi non sono legami. Si possono pensare l’opera d’arte e l’atto politico come eventi fondativi e unificanti, come rappresentativi di una comunità presupposta o postulata, oppure li si può intendere come accadimenti immediatamente universali (o addirittura cosmici) che, prescindendo […] le partizioni dominanti, liberano la potenza affermativa dell’informale” (p. 9). Alla declinazione di questa potenza, sulla scorta di Nietzsche, Bergson e Deleuze, Paolo Godani dedica questo interessante volume, tra i cui meriti spicca anzitutto la chiarezza concettuale ed espositiva, a riprova del rigore intrinseco che l’autore ascrive allo stesso argomento trattato, l’informale. Sin dalle pagine introduttive, fra gli intenti precipui di Godani vi è infatti quello di delineare non solo le fondamentali differenze tra forma e informale, bensì anche quelle esistenti tra il campo dell’informale e il fondo indifferenziato dell’informe. A partire da Bergson l’autore chiarisce immediatamente che solamente nell’ambito di un interesse del pensiero formale può darsi l’indistinzione tra piano dell’informale e fondo oscuro e indifferenziato dell’informe. Ma l’informale, di cui la forma non è che una sovradeterminazione selettiva, come precisamente Bergson ha dimostrato in Materia e memoria, è al tempo stesso un “di più” rispetto alla forma stessa, e un “di meno” rispetto all’informe, poiché l’informale non è energia indifferenziata ma la potenza determinata della vita e dell’essere, un campo di forze in equilibrio metastabile. È il piano d’immanenza, la superficie liscia, su cui tutto si gioca e si disloca continuamente. Esso non è né l’evento inaugurale di heideggeriana memoria né il potere costituente dell’atto rivoluzionario. Cosa dunque distingue propriamente la forma dall’informale? È possibile delineare (ed è questione di capitale  importanza) rigorosamente una filosofia dell’informale, un’arte e una politica che, pur distruggendo le forme non approdino all’informe?
La prima distinzione tra la “forma organica” (categoria generale che Godani utilizza per indicare tutte le possibili modalità di sovradeterminazione dell’informale) e l’insieme informale avviene in base al principio di rappresentazione, fondante per la forma, completamente assente nel caso dell’informale. La nozione di rappresentazione a sua volta, e veniamo a una ulteriore distinzione, implica la relazione tra il luogo privilegiato (che nell’informale, in quanto apertura totale, non si dà) e i luoghi sottostanti. Nel campo dell’informale, al contrario, la relazione non avviene tra entità pre-costituite e gerarchicamente organizzate, bensì tra singolarità in divenire che danno luogo a un tipo di relazione che Deleuze definisce relazione qualunque, ovvero “un atto singolare”, scrive Godani, “che precede e definisce il formarsi degli elementi della relazione: è nel loro carattere di attività o di attualità, di mobilità, di apertura e di identità che l’opera d’arte e l’atto politico risultano affermazioni esemplari dell’informale” (p. 11).
Attraverso l’analisi della logica rappresentativo-simbolica nei campi paralleli dell’arte e della politica, il testo di Godani ne enuclea i nodi problematici e pone le basi di un’ontologia dell’informale che va a costituire l’oggetto degli ultimi quattro capitoli del volume.
A partire dall’analisi schmittiana del politico, l’autore sottolinea come nell’età moderna la rappresentazione divenga, da necessità onto-teologica, necessità primariamente operativa, ed è precisamente a partire dal crollo (che genericamente definiamo nichilismo) dell’universo di valori medievale che la rappresentazione mostra chiaramente la propria logica selettiva nei confronti dell’informale e l’ambiguo rapporto che essa intrattiene con l’informe stesso. “Lo Stato moderno sembra fare a meno del presupposto che era fondamentale per la società medievale: l’esistenza e la presenza viva di una comunità organica. Ma proprio per questa ragione, per questa mancanza, esso si pone come potenza formativa, come potere che ha il compito apparentemente inaggirabile di ricostruire una forma (posta non più come archè, ma come telos), che viene pensata, in ultima istanza, secondo un modello analogo al sistema organico dell’ordine teologico” (p. 17). Mentre Nietzsche saluta il crollo dei valori come la condizione per l’affermazione del piano informale della volontà di potenza, Schmitt declina il nichilismo come caos informe, ed è su questa base che potrà parlare dello stato d’eccezione come fondamento del politico e di una teologia politica.
Come opera questa dialettica di nichilismo e organicismo sul piano della politica moderna?
È ancora in riferimento a Schmitt, lucido interprete dell’assenza di fondamenti, che Godani identifica la moderna volontà di forma nell’“unità politica di un popolo”. È il popolo  lo “spirito vivente” della macchina-Stato, e si identifica con l’idea simbolica di nazione: “La nazione è l’anima dello Stato, la sua essenza vitale, la sua unità vivente. Solo grazie ad essa lo Stato diviene un organismo. Ma questo accade non perché l’esistenza di una nazione implichi il costituirsi di differenze di natura rispetto alle altre nazioni […] quanto piuttosto per il fatto che l’identificazione nazionale realizza un’omogeneità superiore rispetto a quella che è in grado di produrre la macchina poliziesca. Le nazioni, pertanto, si differenzieranno non tanto per le loro specificità storiche e culturali quanto per il grado di identificazione che sono riuscite a produrre” (p. 49). La via d’uscita da questa dinamica non è tuttavia possibile né attraverso la logica del potere costituente (come hanno ipotizzato Negri e Hardt) né attraverso una politica liberale. Nel primo caso infatti, come sottolinea Benjamin nel saggio Per la critica della violenza, la violenza e il potere costituenti non possono sfuggire al circolo vizioso in base al quale il potere che pone il diritto è anche il potere che conserva il diritto. Ma anche nel caso del liberalismo l’organicismo risulta essere inevitabile. Infatti, qualsiasi politica liberale che fondi nel dialogo la propria capacità di risoluzione dei conflitti (si pensi a Kant, Arendt, Habermas) deve necessariamente presupporre una “ideale comunità organica”, un universalismo del logos, come pure, e necessariamente, una determinata forma politica che rimandi a quel logos. Un universalismo nel quale vi è, in conclusione, “sempre troppa sostanza spirituale (troppa storia, troppa cultura, troppa religione, etc.)” (p. 55). Una politica informale è possibile solamente là dove venga spezzata la logica, che oppone falsamente democrazia e autoritarismo, liberalismo e comunitarismo. Come il pensiero rappresentativo presuppone un universo strutturato gerarchicamente le cui parti siano riconoscibili per via analogica a partire dal Principio unificante e legislatore, similmente la relazione immanente tra ontologia e politica è imprescindibile anche nella proposta di una politica informale. È Deleuze a suggerire una via, in Differenza e ripetizione, riproponendo la tesi di Duns Scoto sull’univocità dell’essere, alternativa a qualsiasi teoria dell’analogia entis poiché se l’essere è univoco non si danno diversi piani (per esempio umano e divino) bensì un unico piano d’immanenza, quello dell’essere, al cui interno le differenze sono di natura puramente formale e non implicano alcuna divisione dell’essere. Solamente in uno spazio aperto e privo di ripartizioni fisse e predeterminate è possibile quella dislocazione, quella distribuzione nomade che Deleuze teorizza declinando diversamente da Schmitt il nomos della terra: non più distribuzione della terra a partire dalla conquista, dunque nomos come Ordnung e come Ortung, bensì nomos come luogo di distribuzione privo di confini; uno spazio liscio, illimitato, indefinito, contro lo spazio striato (segnato da muri e frontiere) della sedentarietà e del potere. I movimenti rivoluzionari, gli atti di disobbedienza, la guerriglia o la sommossa sono vere e proprie macchine da guerra che liberano il potenziale nomadico e inventano un nuovo spazio-tempo liscio, il luogo dell’uguaglianza e della relazione qualunque, quella “relazione tra due singolarità non identificabili al di fuori della relazione stessa” (p. 81). Uno spazio che sia il luogo di una universale comunicazione tra punti di vista eterogenei e del loro reciproco contagio.
È evidente tutta l’urgenza, e al tempo stesso l’inattualità, di una politica informale. Urgenza perché nel panorama post-nazionale agitato dalle questioni etnico-religiose, dai flussi di migranti, nonché dall’imperialismo occidentale, i linguaggi e le pratiche tradizionali mostrano tutta la loro debolezza; inattuale perché l’autoreferenzialità identitaria dei soggetti politici e la priorità della sicurezza (economica, politica, ecologica, sociale) rendono gli stessi soggetti tendenzialmente conservatori  e refrattari a una politica “nomadica”. In questo senso la riflessione di Godani rispecchia, anche in una certa astrattezza che la contraddistingue, il carattere non-definito, in-formale appunto, degli stessi soggetti politici coinvolti: “L’atto politico informale come affermazione dell’uguaglianza è un atto polemico che si oppone alle identificazioni e alle forme, che tende a disfarle, facendo passare la propria linea d’affermazione tra di esse, ma contemporaneamente è un atto che afferma l’universalità dell’uguaglianza come piano univoco dell’informale” (p. 154). Gli attori di una politica informale non sono i militanti e non sono parte di un partito sul modello di quello leninista, poiché centrale nell’informale non è il soggetto, ma sono, come afferma Rancière sulla scorta di Marx, i proletari, singolarità qualunque, dissolutori d’ogni classe e d’ogni figura, impropri, anonimi, anomali, unici soggetti d’uguaglianza che si collocano in quanto intervallo negli interstizi del politico e “tra i nomi, le identità o le culture” (p. 154). Sono la  singolarità qualunque che Deleuze indica con homo tantum e Agamben (riallacciandosi all’ultimo Foucault) con nuda vita, quella nuda vita sulla quale agisce la politica come bio-potere ma che è comunque ancora in grado di resistere e lottare, una nuda vita im-personale e pre-individuale, oltre-umana o indifferente all’umano in quanto tale, “una vita (come campo metastabile) [che] può determinare una delle sue singolarità entrando in relazione qualunque con una roccia, con un animale, con una macchina, con una molecola o con una stella; può divenire roccia, animale, macchina, molecola o stella; può comunicare con l’intero universo, perché essa stessa è sempre e solo un insieme di relazioni qualunque che quell’universo costituiscono”

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